Hopeless. Una riflessione.

A dire il vero volevo scrivere delle nuove scoperte che ho fatto quest’estate nella cura di me stessa, all’alba dei 40 anni.
Ma poi ho aperto i giornali, e ho letto della giovane donna che si è suicidata dopo che un video hard che la vedeva protagonista ha girato per i social e la rete attirando su di lei commenti, giudizi, illazioni e insulti. E poi ho letto della giovane ragazza ubriaca, violentata in un bagno e filmata dalle amiche che ridevano e che il giorno dopo le hanno mandato il video su whatsapp.
E il pensiero corre subito a loro, alle mie bambine. Ancora piccole, ma chiaramente e inequivocabilmente native digitali. Loro, che saranno adolescenti in tempesta ormonale, che faranno cose di cui si vergogneranno, che andranno contro i nostri consigli solo per il gusto di. Come noi, anni fa. Che però avevamo come testimoni “solo” i nostri compagni di avventura, solitamente selezionati. Che come tribunale avevamo la classe, al massimo la scuola, il cortile, il quartiere, non di certo il campo sterminato del www.
Loro, le mie figlie, che presto impareranno a pesare gli sguardi, a fidarsi ma non troppo, a guardarsi intorno tornando a casa. Loro, a cui dovrò insegnare che essere donna non è sempre facile, per quanto possa essere bellissimo. Loro che impareranno il potere di occhi, frasi e abbigliamento, e che spero sappiano usare questo potere, senza esserne dipendenti, senza abusarne, senza seguire (almeno non troppo) le idee di altri.
Ma dovremo imparare noi, noi che non siamo cresciuti cosi. Imparare a proteggere, imparare a trovare il modo per insegnar loro a preservarsi, che condividere non vuol dire buttar via, che scegliere è sempre una buona premessa, e che perdere del tutto le redini di quello che succede va bene solo se il contesto è sicuro, se chi è con te è in grado in qualche modo di contenere, mantenere, frenare, aiutare.
Dovremo imparare a spiegar loro che non fa ridere, l’offesa. Che quello che sembra un gioco goliardico se esposto può diventare una tortura, un marchio, una condanna. Che il branco non paga, mai. Che la rete deve supportare, non umiliare. Che la risata, la presa in giro, la parola di troppo, quella che può scappare a tutti bevendo una birra tra amiche, quella stessa cosa può diventare un’arma potentissima se lanciata in rete, e a quel punto non riesci più a tornare indietro.
Dovremo imparare, noi tutti, che quello che si scrive, dovunque e per qualunque motivo,  quello che si vede e si decide di divulgare, ha un potere. Può far bene, o può far male, malissimo.
Dovremo imparare, noi tutti, ad essere responsabili e ad essere empatici.
Dovremo imparare, noi tutti per loro, per le ragazze marchiate, per quelle che non ce l’hanno fatta a sopportare il peso di un giudizio senza scampo, per le ragazze abusate, per quelle che sono finite in un mondo troppo più grande di loro, a stare in silenzio, ogni tanto. Ad avere il coraggio e la dignità di tenere per sé, di non buttare all’aria, di non gettarsi nella mischia. La decenza di sfogare la propria rabbia in altri modi, senza punire chi colpe non ne ha. Il sacrosanto dovere di non giudicare, mai.
Un’utopia probabilmente, ma cominciare da qualche parte si può, si deve.

 

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Hopeless, Roy Lichtenstein; immagine dal Web

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